top of page

LA STRAGE DI SANT'ANNA - Enio Mancini

Episodi come questi, nel territorio delle Apuane, ve ne sono stati diversi: nel mese di Agosto, dopo s. Anna, vennero colpiti duramente anche S. Terenzo Bardine (Fivizzano) e Vinca, con il sacrificio comples­sivo di 890 vite innocenti. Abbiamo scelto simbolicamente la pagina di s. Anna di Stazzema e ci siamo affidati al toccante ricordo di uno dei sopravvissuti all'eccidio, Enio Mancini, autorevole direttore del citato Museo. Ci fornisce un ritratto del borgo prima del fatidico 12 Agosto 1944, riassume la drammatica cronologia dei fatti e con grande onestà non dimentica quella lamella di luce cui Enio e la sua famiglia devono la vita. E prosegue raccontandoci il dopo, quello immediato e poi quello del ritorno a scuola, accanto al vuoto dei compagni che non c'erano più e agli incubi ricorrenti. La recente condanna in contumacia dei dieci imputati dell' eccidio restituisce a tutta la comunità di s. Anna la memoria storica inseguita per oltre 60 anni. Parallelamente anche in Germania si sta per aprire un analogo processo contro coloro che hanno infangato per sempre la coscienza dei tedeschi onesti.

S. ANNA.

"Qui, nel' 44, eravamo circa 400 residenti; S. Anna non è un agglomerato unico, il classico paesino raggruppato, ma consiste in tanti casolari sparsi: dalle case di Berna, laggiù in fondo, sotto il M. Gabberi, fino a quelle di M. Ornato, oggi distrutte. Per andare da un' estremità all' altra del borgo, all' epoca ci voleva circa un' ora. Quell' estate erano arrivate quassù intere famiglie di sfollati, che provenivano per gran parte dalla Versilia, dai paesi della piana sottostante: Camaiore, Capezzano, Pietrasanta, Forte dei Marmi, Seravezza; ma c'erano anche famiglie di Genova, La Spezia, Livorno, Piombino, S. Giorgio a Cremano, Castellammare di Stabia, Pavia. La gente aveva cercato rifugio quassù, perché allora non c'era la strada; per raggiungere S. Anna l'unica via era fare... trekking: era un obbligo, non un hobby come oggi. Dal paese più vicino (Valdicastello), ci voleva almeno un'ora e mezzo; la strada arrivava fino a Monteggiori, ma per noi era molto più vicino e facile venire da Valdicastello. Altre mulattiere arrivavano a Capriglia e Capezzano, passando dalle case di M. Ornato, altre ancora da Farnocchia, raggiungibile anch' essa a piedi, perché la strada finiva a Mulina di Stazzema".

GLI SFOLLATI.

"Accogliere ed ospitare un migliaio di persone per i quattrocento residenti non era stato facile; ci siamo stretti e dove si stava in cinque siamo diventati quindici, anche venti; e tanti si sono dovuti arrangiare alla meglio nelle stalle. Le case allora erano povere: non c'era l'energia elettrica, mancava l'acqua corrente, mancavano i servizi; a quell' epoca questa situazione non pesava più di tanto. Il problema più grosso invece era la fame. Quelle poche scorte che avevamo le abbiamo divise, prima coi partigiani e poi con gli sfollati. Quassù qualcosa da mangiare si trovava: il latte della mucca, qualche castagna, i prodotti della terra. Poi quando gli sfollati sono arrivati in massa e da 400 siamo diventati 1400, siamo stati costretti a macellare le bestie all' aperto, nella piazzetta della chiesa, anche se era proibito. Comunque, malgrado tutte queste difficoltà, eravamo abbastanza tranquilli e l'arrivo di tutte queste famiglie era stato accolto quasi come una festa. Noi bambini, a quel tempo, ci spostavamo poco dal paese, solo eccezionalmente: ecco perché avere qui tanta gioventù era una festa in qualche modo, nonostante non avessimo da mangiare".

L'ANTEFATTO.

"La collocazione isolata delle frazioni che insieme davano vita al borgo di S.Anna, rendeva questo luogo, agli occhi di queste famiglie sfollate, apparentemente sicuro, nonostante fossimo vicini alla guerra, perché il fronte era lì, nella piana. C'erano stati fino agli ultimi giorni di Luglio formazioni partigiane su queste montagne (a Compito, M. Ornato, il Gabberi); poi il 31 di Luglio c'era stato un attacco concentrico, un tentativo di accerchiamento di queste formazioni sul M. Ornato e sul Gabberi, per annientare questa resistenza. I partigiani erano stati costretti ad allontanarsi, a sganciarsi, come dicevano in gergo; si erano spostati nel Lucese, verso Lucca. Ed il 2 di Agosto qui era rimasta solo la gente, la quale si sentiva ancora più al sicuro proprio perché i partigiani avevano lasciato la zona; se prima era difficile arrivare quassù, ora ne era venuto meno anche lo stimolo. Ad ogni buon conto qualcuno era andato a chiedere lumi al comando tedesco, perché Farnocchia era stata evacuata e c'era voce che anche S.Anna dovesse seguire la medesima precauzione; la risposta fu tranquillizzante" se non ci sono più partigiani, potete stare tranquilli". Forse anche per questo vennero parecchi sfollati. D'altra parte serviva credere alla fondatezza dell'informazione, perché la gente non sapeva più dove andare: la piana era isolata ed i paesi da queste parti rispondevano tutti ai medesimi criteri di sicurezza.

L'ECCIDIO.

"Era l'alba, il paese stava ancora dormendo. Attorno alle 6, 6 e mezzo, si è percepito che qualcosa stava accadendo, perché da dietro, dalla montagna, erano stati visti sparare dei razzi luminosi, tre dal versante e uno dalla mulattiera che saliva da Valdicastello. I razzi cominciarono poi a scendere: oggi non si vedrebbero perché S. Anna è ricoperta di boschi, ma allora era tutto più scoperto, perché c'erano i prati e perché periodicamente gli alberi venivano tagliati. Allora ci fu un "tam tam"; quelli che erano alzati, perché erano già nei campi a lavorare, dettero l'allarme: cominciarono ad urlare "Ci sono i tedeschi, ci sono i tedeschi". Erano gli uomini che pensavano di essere in pericolo. Nessuno immaginava che gli altri, le famiglie, i bambini, le donne, i vecchi, dovessero subire violenze. E la stragrande maggioranza degli uomini che erano qui riuscirono a scappare nel bosco, magari dopo essere passati dalle case per avvisarci. Mio padre prima di allontànarsi ci raccomandò di buttare fuori di casa più cose possibili, in modo che se le truppe avessero bruciato e distrutto il paese, come era avvenuto quattro giorni prima a Farnocchia, almeno avremmo avuto qualcosa per coprirci. Le cose nori andarono così. I tedeschi scesero intorno alle 6,30 e tre delle quattro colonne massacrarono tutti quelli che incontrarono". Il nostro interlocutore continua a raccontare con voce ferma, anche se talvolta spegne il disagio del ricordo con delle brevi pause. Tralasciamo volutamente alcuni passaggi che comunque non possono alleviare in alcun modo l'immonda nefandezza di quella vergognosa pagina di storia. "La cronaca della giornata era cominciata su in alto, alla Vaccareccia: poche case, ma strapiene di persone. I nazisti spalancarono le stalle, fecero uscire le bestie e alloro posto vi ammassarono tutta la gente. Poi cominciarono a sparare, completando l'opera con bombe e lanciafiamme. Fu poi la volta dei casolari sottostanti, dove ripeterono la stessa strategia; teatro dell' eccidio non più le stalle, ma comunque chiusi nelle loro case, perché nessuno potesse fuggire. La scena successiva si consuma nella piazzetta della chiesa, dove il prete di Farnocchia viene trucidato insieme a circa 200 persone per non aver svelato il nascondiglio degli uomini, o meglio dei "banditi", come sono chiamati dai nazisti. Poi, i corpi martoriati vengono bruciati con l'arredo della chiesa. Ma non è finita. Le SS fanno scempio delle persone rifugiate nella casa proprio sotto la chiesa, fra cui una partoriente, Evelina, con il terzo bambino ancora in grembo. E fulminano anche l'ultima bambina nata del paese, Anna, di appena venti giorni. Chi cercava di fuggire non aveva scampo di fronte alla dissennata furia omicida di questi assassini, raggiunti ovunque, nei viottoli, lungo i sentieri, nel bosco. Questo "tornado" di morte durò tre ore. Prima delle dieci del mattino praticamente si era tutto concluso. In questo lasso di tempo erano state uccise 560 persone, di cui 203 di S. Anna. Molti morirono per effetto delle bombe, delle scariche; altri bruciarono dentro le case".

LA QUARTA COLONNA.

"Quella mattina i tedeschi erano arrivati da diverse direzioni; una da Vallecchia e poi M. Ornato, un' altra da Ruosina, per un percorso nel bosco, che solo le persone del luogo conoscevano, una terza da Mulina di Stazzema; qui nella notte uccisero Don Fiore Menguzzo, un giovane prete ventottenne, falciato con tutta la sua famiglia. La quarta era salita da Valdicastello, per la via più breve.

Per fortuna mia e di quelli che erano con me la quarta colonna si comportò in modo diverso, anche se poi provvederà a fucilare a Valdicastello 14 persone, alle quali era stato imposto di portare a valle le armi. Mio padre venne quella mattina presto, ci avvisò di quello che stava per accadere e scappò con gli altri uomini del borgo. La mia famiglia era in casa e noi bambini (all' epoca avevo 7 anni) non ci eravamo neanche vestiti; usciti dal letto, per fare presto, abbiamo buttato fuori dalla finestra la roba, la biancheria, i vestiti, come ci aveva raccomandato nostro padre. Dopo qualche minuto, verso le 6,45, abbiamo sentito scendere dalla Foce di Farnocchia quei soldati, che sparavano, probabilmente a quegli uomini che vedevano allontanarsi. E allora noi ci siamo chiusi in casa; ingenuamente si sperava che non entrassero. Invece in pochi minuti hanno raggiunto le nostre case ed hanno cominciato ad entrarvi; qualcuno depredava e poi dava fuoco con il lanciafiamme, altri invece optarono per radunarci nell'aia, nella piazzetta del borgo: complessivamente eravamo circa un centinaio di persone. I soldati, a quel punto, cominciarono a preparare la nostra esecuzione; avevano sistemato i cavalletti e montato le mitragliatrici; allora percepimmo che da un momento all' altro si stava per essere uccisi. Ricordo perfettamente mia madre e le altre donne che andavano ad inginocchiarsi di fronte ai soldati invocando pietà. E fra le ultime lacrime dicevano "ma noi che cosa abbiamo fatto, che colpa ne abbiamo della guerra, che colpa ne ha il bambino piccolo o il nonno che è vecchio?". Poi è arrivato un soldato, che probabilmente era l'ufficiale che comandava quel reparto, era in ritardo rispetto agli altri. Ci scrutò per bene. Guardava se tra noi si fossero nascosti uomini adulti validi. Visto che non c'erano cominciò ad impartire ordini in tedesco, che noi non comprendevamo. Però ecco l'altro aspetto drammatico. Fra loro c'erano altri che non erano tedeschi ed erano in abiti civili; era gente della zona, le "guide" che avevano condotto nella notte le truppe attraverso i sentieri. Loro facevano da interpreti e ci dicevano che cosa avremmo dovuto fare; l'ordine era chiaro: dovevamo scendere tutti a valle. Per quel gruppo di persone è stata una liberazione, ci siamo sparpagliati, ognuno ha preso una direzione diversa; inizialmente l'idea era quella di andare a Valdicastello, ma poi, fatti pochi passi, si passò davanti alle case e quello che temevamo si era puntualmente avverato: bruciava tutto. Allora le donne di casa mia decisero di non andare.

"Non andiamo giù, nascondiamoci nel bosco". La speranza era che quei soldati facessero in fretta ad andarsene, consentendoci di tornare per recuperare qualcosa; fra tutte queste cose ciò che ci premeva di più era la mucca, chiusa nella stalla. "Se muore la mucca - diceva mia madre - siamo perduti". Perché la mucca era l'unica risorsa che avevamo. Se siamo sopravvissuti è grazie al latte della mucca. Siamo così scesi di 100-150 metri sotto casa, nascondendoci fra i castagni. Noi bambini eravamo però scalzi e camminare nel bosco di castagni senza scarpe era impossibile, così si piangeva; la mamma si raccomandava di stare zitti, per non essere sentiti ed individuati; ma come era prevedibile una pattuglia di sei-sette soldati poco dopo ci ha intercettato. Eravamo preoccupati, "abbiamo disobbedito, che cosa ci faranno", pensavamo. Ci hanno incolonnato e alcuni tedeschi si sono messi davanti, per farci strada, poi noi al centro, tutti in fila indiana su questo sentierino, e a chiudere gli altri soldati dietro. Questi ultimi non è che andassero tanto per il sottile: ci urtavano, ci picchiavano, spintoni, bottei malgrado queste sollecitazioni, proprio per la difficoltà di camminare scalzi, non si procedeva in modo svelto"

UNA LAMINA DI LUCE.

"Forse avevano dei tempi da rispettare, perché ad un certo momento la pattuglia nazista ha accelerato il passo, lasciando presso di noi solo un soldato giovanissimo; era il classico biondino tedesco, avrà avuto 17-18 anni, così hanno stimato le donne di casa. Questo ragazzo rimasto solo con noi cominciò a parlarci, ma chissà che cosa cercava di dirci. Erano però chiari i gesti: sostanzialmente ci diceva di stare zitti e di tornare indietro. Noi ci siamo arrampicati lungo il sentiero per tornare a casa e proprio nel momento in cui abbiamo voltato le spalle a quel soldato abbiamo sentito una raffica, una sventagliata di proiettili. Per un attimo abbiamo pensato che ci stesse uccidendo. Ci siamo voltati di scatto e ci siamo accorti invece che questo soldato sparava in aria. Ha fatto finta di ucciderci e poi se n'è andato."

Bambini di Sant'Anna giocano tranquilli qualche giorno prima dell'eccidio.

LE FIAMME.

"Noi, fino a quel momento, non avevamo capito quello che realmente stava accadendo, il dramma che si stava abbattendo su questo disgraziato paese. Noi pensavamo al fuoco. Siamo tornati a casa, erano le dieci del mattino, e ci siamo messi a spegnere le fiamme, insieme agli altri gruppi che alla spicciolata stavano tornando. Era tutto un caos: rumori, tetti che crollavano, il fumo che si alzava da tutte le parti, le bestie che stavano bruciando vive all'interno di quelle stallei noi in quel momento pensavano alle bestie, alle case, al fuoco. Alle dieci era finito tutto; i tedeschi se ne stavano andando verso valle e ci siamo resi conto di quello che era realmente accaduto solo nel pomeriggio, verso le 16".

DISPERAZIONE.

"A quell' ora rientrò infatti uno di quei giovani che si era alzato presto la mattina per lavorare nei campi e portò la notizia. Ed allora la casa, il fuoco, non ebbero più importanza. Si cominciò a correre. Le prime case che visitammo furono quelle dove abitavano i nostri parenti e lì abbiamo visto quello scempio. Per fortuna non passai dalla piazzetta della chiesa e arrivato a quelle case lassù vidi un gruppo di cadaveri sparsi per terra: da sotto uscì una ragazzina di 12-13 anni. Solo allora era venuta allo scoperto, quando cioè aveva sentito voci amiche. Abbiamo poi trovato altre persone vive, soprattutto ragazzi, piccoli o un po' più grandi: non parlavano, erano impietriti dal terrore e dal dolore. Anche i feriti non piangevano. Tra questi c'era un bambino, Mario, che quando fu rinvenuto quella sera aveva la schiena quasi distrutta dal fuoco: pensate che dalla schiena si vedevano i polmoni. Ma era vivo ed è sopravvissuto. E' il figlio di Jenny, quella mamma coraggiosa che prima di morire ebbe la forza di scagliare uno zoccolo contro i carnefici, attirando verso di sé l'attenzione; quando erano entrati in quella stalla ed avevano cominciato a sparare, Jenny era già ferita alla testa, ma cercava disperatamente un ripostiglio ove nascondere Mario; lo trovò dietro la porta, perché li' c'era una specie di nicchia sormontata da alcune pietre che sporgevano dal muro: lei prese Mario e lo mise a cavalcioni, in faccia al muro, raccomandandosi che non si muovesse. Istintivamente cercò di chiudere la

porta, che venne sfondata: lei ha retto finché ha potuto, finché la spallata più violenta di un

nazista che entrava l'ha fatta cadere. Per la paura che Mario venisse scoperto ha preso uno zoccolo e l'ha scagliato con tutta la sua forza in faccia al nazista: un attimo dopo era morta. Jenny è stata insignita nel 2003 di medaglia d'oro al merito civile: è una figura che è diventata subito un simbolo nell'immaginario collettivo, tanto da apparire sulla copertina della Domenica del Corriere, nel 1945. Un'altra medaglia è stata concessa quest'anno ad una donna sopravvissuta, Milena; all' epoca aveva 16 anni. Ferita, con 22 schegge in corpo, dopo il lancio delle bombe in una stalla, crollò a terra. Poi il fumo invase il locale e lei cominciò a tossire, si sentiva soffocare.

Nel tentativo di uscire all'aria aperta si è resa conto che chi prima di lei era riuscito nell'intento di evadere dalla trappola era stato puntualmente falciato dal mitra del ,soldato di guardia: si trovava in pratica tra due fuochi. Per fortuna ha notato che le bombe avevano aperto nel soffitto di tavole uno squarcio; allora è salita sulla mangiatoia ed è uscita all' aperto, finalmente salva. Ma da lì ha sentito le invocazioni di aiuto provenire dalla stalla: e non ha avuto esitazioni. E' tornata in quello che sembrava sempre di più un forno crematorio ed ha raccolto tre ragazzi: il più grande aveva 12 anni e il più piccolo 5, tutti feriti; con le ultime forze che le erano rimaste li ha tratti in salvo; sono tuttora in vita e possono testimoniare.

L'ULTIMO NASCONDIGLIO.

"Nei giorni successivi, ci siamo contati; ma non fu facile farlo. I sopravvissuti si erano sparpagliati ovunque, con la paura, anzi il terrore che i nazisti potessero tornare una seconda volta e che non ci fosse più per noi un' altra possibilità di salvezza. E' evidente che in cuor suo ogni familiare sapeva bene chi non era più, ma noi, globalmente, come paese, ci siamo contati a fine Settembre, quando siamo tornati a S. Anna. La prima cosa da fare è stata quella di curare alla meglio i feriti, che erano in massima parte ragazzi. Poi ci siamo occupati del triste compito di seppellire i cadaveri; non c'era un luogo deputato, ma sceglievamo il luogo dove era possibile: nella piazzetta della chiesa, come nei campetti di famiglia. Solo a quel punto ci siamo separati e ci siamo rifugiati nelle grotte alla stregua di animali braccati. In 23 ci siamo nascosti qui sotto, in un anfratto protetto dal bosco e lì siamo rimasti per quaranta giorni. Si usciva solo la notte, per non tradire la nostra presenza. Di notte si accendeva anche il fuoco per cucinare qualcosa; ci avevano ucciso gli animali, però per fortuna i campetti di patate e fagioli c'erpno ancora. I nostri adulti venivano su e la notte si cucinava. Non avevamo percezione assoluta di quello che stava succedendo attorno a noi. Non filtravano notizie perché nessuno si spostava da qui."

IL RITORNO A SCUOLA.

"Nel nostro borgo, io abitavo a Sennari, ci siamo salvati quasi tutti, fu l'unica isola felice di quel giorno, anche se i parenti li abbiamo perduti. Ma a me, bambino di allora, più che gli adulti, sono mancati i miei coetanei e questo fatto mi ha creato uno stato d'animo di insofferenza. Dove qdesso siamo qui a parlare nel' 43 c'era la scuola e qui dove c'erano le poltroncine c' erano i nostri banchini; eravamo 42. Poi l'anno dopo la scuola durò poco; ci mandarono a casa, c'era ancora l'occupazione tedesca, c'erano altri problemi. Tornai a scuola nel' 45, non qui che era devastata, in una stanza delle poche case rimaste in piedi; non c'era più gente e quindi non c'erano problemi di spazio. Eravamo rimasti in 12 e 30 di quei miei compagni non c'erano più. In più eravamo abbandonati a noi stessi, non veniva nessuno, c'era la miseria più nera e la miseria porta anche egoismo. Tornare a scuola i primi anni non fu facile; una cosa che ricordo erano gli incubi ricorrenti, che capitavano spesso, non dico ogni notte, ma quasi. La paura, il terrore, i cadaveri e le scene vissute; questi sogni sono continuati per 4-5 anni, finché ebbi la fortuna di andarmene da qui, in collegio a Pisa. Frequentare questi ragazzi diversi mi ha aiutato molto a riacquistare una serenità che qui sarebbe stato molto difficile conquistare. Ci sono stati episodi di pazzia, perché qualcuno si è sentito in colpa per aver lasciato i familiari alla mercé di quegli assassini. Ma a che cosa sarebbe servita la loro presenza? Ad aumentare il numero dei morti, questa è l'amara realtà".

LA CONDANNA.

"Fino a pochi anni fa ci portavamo dietro due interrogativi: del chi e del perché. Ancora non si conoscevano i responsabili né tedeschi, né italiani; perché c'erano stati anche loro. E non si conosceva la motivazione della strage, il mòvente, non la giustificazione. Ora invece, con i 10 ergastoli inflitti dal Tribunale Militare di La Spezia, nel corso della sentenza del 22 Giugno 2005, una parvenza di giustizia adesso c'è, sia pure dopo 62 anni dalla strage.

Tanti mi dicono "Ma che senso ha mettere oggi sotto processo un vecchio di ottant'anni?" lo rispondo affermando che loro a questa veneranda età sono arrivati, mentre ciò è stato impedito ai bambini di S. Anna. Ed allora, anche se questa giustizia naturalmente è un po' monca, è sempre comunque una riparazione morale. Da questo processo si aprono poi squarci sulla verità, sulle motivazioni, sul perché. Qualcuno di coloro che erano presenti a S. Anna quel giorno è venuto fisicamente a testimoniare; altri invece hanno lasciato le rogatorie, gli interrogatori sono stati fatti in Germania. Però racçontano. Il disegno nazista era chiaro. Dopo la fallita offensiva contro i partigiani sul M. Ornato e sul M. Gabberi, il timore era che potessero recuperare le loro posizioni. D'altra parte il M. Lieto era un punto strategicamente troppo importante per essere lasciato in mano nemica; ciò spiega la distruzione di Farnocchia 1'8 Agosto. S. Anna rientrò nella strategia della terra bruciata: distruggere ogni forma di vita per impedire ai partigiani di tornare nella zona, secondo il postulato del feldmaresciallo Kesselring. Tanto è vero che non distrussero solo le case ed uccisero le persone, ma fecero fuori anche tutti gli animali, non solo mucche e pecore, ma anche polli e conigli. Il piano fu portato a termine senza correre alcun rischio: incutere il terrore per dare una dimostrazione di quello che erano capaci di fare, in modo da scoraggiare qualsiasi eventuale forma di reazione. Il cruccio che oggi abbiamo è che nessuna delle" guide" italiane che quella notte accompagnarono i nazisti è più in vita. Ah, se il processo fosse stato fatto prima... perché, dal punto di vista morale, questa gente che aveva convissuto qui con noi è più responsabile degli stessi nazisti. ".

LA DIFFUSIONE DELLA MEMORIA.

"Di S. Anna da tempo si era persa la memoria. Non da parte nostra, ovviamente. Non potevamo accettare una cosa del genere, perché volevamo avere anche noi il riconoscimento che ci spettava; in Italia le stragi ricordate erano essenzialmente due: le Fosse Ardeatine e Marzabotto. In questi ultimi anni con grandi sforzi questo recupero della memoria lo abbiamo fatto. Ci ha aiutato molto la presenza del Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, quando è venuto il 25 Aprile 2000, a S. Anna; e poi un grosso contributo lo abbiamo ricevuto da parte tedesca. Non le istituzioni, ma cittadini che sono venuti, ci danno continuamente una mano; per esempio, lì, in quella chiesetta, quel giorno, venne distrutto l'organo. Allora cittadini musicisti in Germania fanno concerti e raccolgono fondi e nello stesso tempo diffondono questa memoria. Questo ha portato altri tedeschi quassù, fra cui ricercatori, giornalisti che hanno dato ampio spazio all' evento. E presto un analogo processo si terrà a Stoccarda. Nell' occasione associazioni tedesche ci hanno offerto di darci assistenza gratuita come parte civile; questo, innegabilmente, fa loro onore. Quanto a quel soldato tedesco lo cerco ancora, disperatamente ed io racconto l'episodio continuamente, nella speranza che qualcuno legga. Quando sono stato a Berlino, 8-9-10 Aprile 2005, c'erano giornalisti, c'era la televisione ed io mi sono raccomandato di divulgare questo appello. Magari lo trovassi."

IL CORAGGIO DELLA VERITA'.

"Il 10 Dicembre 2005 è venuto a testimoniare al processo di La Spezia l'ex militare delle SS Adolph Beckert. Ha sostenuto che quel giorno non ha ucciso nessuno ed io devo credergli, perché alcune cose corrispondono. Ha riferito che a lui avevano affidato un commilitone ferito da portare giù, a Valdicastello;.loro erano in due e quando nella discesa incrociavano qualcuno dei civili gli facevano capire di a:Ilontanarsi, di fuggire. Una circostanza precisa, puntualmente confermata dalla mamma di Bruno, la Cesira. Quel cittadino tedesco ha testimoniato per sei ore; ha parlato a lungo, anche con difficoltà. Era sconvolto, emozionato, piangeva. Questa emozione ci coinvolgeva tutti, perché a questo processo c'erano tante persone semplici; abbiamo partecipato anche a delle udienze pesanti, difficili, magari burocratiche. Alle udienze c'è sempre un gruppo dei nostri, ci siamo alternati, in modo che ci fosse sempre in quell' aula un presidio. Si piangeva tutti, fra poco piangeva anche il Presidente del Tribunale, perché il racconto era di una precisione terrificante. Ed allora, alla fine del processo, ho chiesto se potevo incontrare quell'uomo ed egli ha acconsentito. Ci siamo incontrati. Ci siamo stretti anche la mano. Con difficoltà. Non è stato un gesto che si fa con braccia al collo, però l'ho voluto fare, per la forza che ha avuto di venire a testimoniare e per questo suo pentimento.

Questa è la storia."

Una testimonianza forte, nella quale all'interno di un canovaccio di grande intensità emotiva, la delirante follia umana materializzatasi quel giorno a S. Anna si delinea senza incertezze e procede dritta verso l'apice della sua natura perversa. Sembra impossibile che si possa arrivare a tanto, eppure troppe volte la dignità e l'innocenza, che sono forse i beni più preziosi che il mistero della creazione ci ha dato, vengono spazzati via senza alcun ritegno, prima ancora della vita stessa.

Dal baratro senza ritorno solo esili frammenti di luce.

61 anni ci sono voluti per restituire a questa piccola comunità la perduta memoria storica di un passato incancellabile. E devastante.

Dopo tanto tempo, da quella fucina del male alcune entità si sono messe in cammino.

Il viaggio è appena cominciato, ma il cuore di S. Anna è coraggioso e grande.

Nonostante tutto.

 

Questa testimonianza, fornita dall'ANPI Versilia "Gino Lombardi" sul proprio sito ( Sezione Testimonianze ANPI Versilia ), tratta dal volume "Sui sentieri delle Alpi Apuane per riscoprire il cammino dell'uomo" di Marco Marando, fa ben capire cosa sia stata per gli abitanti ed i sopravvissuti di questo eccidio l'esperienza traumatica del 12 agosto 1944, di come la verità sia stata dapprima tenuta segreta e poi, finalmente, rivelata in maniera definitiva con la scoperta dal famigerato armadio della vergogna.

Come mai è così importante tramandare storie tanto tristi e che chiunque preferirebbe dimenticare, in primis coloro che le hanno vissute? Perchè dimenticare equivale ad ignorare, far finta che non sia mai successo; non c'è niente di peggio. Sse non rimanesse vivo il ricordo di questa e delle altre tremende giornate, il rischio che accadano nuovamente diventerebbe altissimo. Ricordare il passato, per quanto doloroso e triste, ci aiuta ad andare avanti, a migliorare noi stessi, per imparare dagli errori così da non ripeterli. Allo stesso modo, commemorare la strage di Sant'Anna, la Shoah, ogni strage, guerra e conflitto dove sono morte ingiustamente tante persone, serve a tutti per imparare dagli errori commessi in passato, istruendoli e facendogli capire cosa tali scelte potrebbero comportare, così che sappiano fare in modo che tutto ciò rimanga solo un ricordo del passato e non una nuova pagina della storia attuale.

bottom of page