In questo giorno di 98 anni fa nasceva uno dei maggiori scrittori e rappresentanti del secolo scorso: Primo Michele Levi. Chimico, partigiano e scrittore nei suoi libri (“Se questo è un uomo”, “La tregua” e “I sommersi e i salvati”) ha cercato di trasmettere quella che è stata la sua esperienza di vita come ebreo italiano e di internato del campo di concentramento di Auschwitz, dove venne mandato nel Febbraio 1944, dopo un breve periodo a Fossoli, in seguito alla cattura avvenuta il 13 Dicembre 1943 perché facente parte della Resistenza che militava in Val d’Aosta.
Nato a Torino il 31 Luglio 1919, nel 1934 si iscrisse al Liceo Classico Massimo d’Azelio, conosciuto per aver ospitato professori illustri e oppositori del regime come Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Norberto Bobbio, Cesare Pavese (di cui ricordiamo il libro “La luna e i falò”), Massimo Mila, Leone Ginzburg e molti altri, tutti successivamente allontanati. Si diplomò nel ’37, dimostrante una mente brillante, razionale ma che possedeva anche una grande immaginazione, tutte doti che gli permetteranno di eccellere sia nelle materi scientifiche che in quelle letterarie. Dopo il ginnasio scelse una laurea in Chimica all’Università di Torino, ma le leggi raziali del 1938 introdussero anche in Italia gravi restrizioni ai cittadini ebrei, influendo particolarmente sul suo percorso di studi e sulla sua vita da intellettuale perché, nonostante le leggi precludessero l’accesso agli studi agli ebrei, permettevano di terminarli a chi fosse già iscritto ma Primo Levi, purchè in pari con gli esami, non riusciva a trovare un relatore per la sua tesi finché non riuscì a laurearsi con lode nel 1941 con una tesi in chimica. Sul suo diploma era specificato “di razza ebraica”.
Successivamente suo padre si ammalò di tumore e le conseguenti difficoltà economiche lo rallentarono nella ricerca di un lavoro. Riuscì a farsi assumere, quasi illegalmente, da un’impresa che lo incaricò di trovare un metodo economico per estrarre tracce di nichel nel materiale di scarto di una cava d’amianto ed a questo periodo risalgono i primi esperimenti letterari, pubblicati molti anni dopo nella raccolta "Il sistema periodico".
Nel 1942 si trasferisce a Milano dove trovò un impiego migliore presso una ditta di medicinali svizzera e qui, assieme ad alcuni amici, entrò in contatto con ambienti antifascisti ed iniziò a far parte del clandestino Partito d’Azione.
In seguito all’Armistizio dell’8 Settembre 1943 si trasferisce sulle montagne dove si unì al nucleo partigiano operante in Val d’Aosta, ma di questo periodo però non ha mai voluto raccontare troppo. Pochi mesi dopo venne arrestato dalla milizia fascista nel paesino di Amay, durante l’interrogatorio si dichiarò ebreo piuttosto che partigiano e per questo venne mandato al campo di Fossoli, vicino a Carpi in provincia di Modena. Il 22 Febbraio 1944, invece, venne trasferito ad Auschwitz, con un vagone merci, insieme ad altre 650 persone. Di questi solo 20 torneranno, tra cui il nostro scrittore. Levi, che al momento dell’internamento non aveva ancora 25 anni, venne registrato con il numero 174'517 e condotto al lager di Buna-Monowitz, conosciuto come Auschwitz III che era un campo di lavoro (il primo era quello con la scritta Arbeit macht frei sul cancello di ingresso ed era un campo di concentramento, il secondo era conosciuto come Auschwitz-Birkenau ed era quello di sterminio). Qui vi rimase fino al giorno della liberazione del lager da parte dell’Armata Rossa sovietica il 27 Gennaio 1945. Come abbiamo detto, fu uno dei pochi di quelle 650 persone partite con lui a fare ritorno, e Levi attribuì la sua sopravvivenza a 4 fatti: la conoscenza di un tedesco elementare, imparato leggendo le pubblicazioni scientifiche, l’incontro con Lorenzo Perrone, un civile occupato come muratore che rischiando la propria vita riusciva a procurargli regolarmente qualcosa da mangiare e la sua selezione, insieme ad altri 2 prigionieri poi deceduti durante la marcia di evacuazione del campo, per un posto presso il laboratorio della Buna, fabbrica di proprietà della tedesca IG Farben dove producevano gomme sintetiche. Lo scrittore ritenne questo aspetto fondamentale perché le mansioni erano meno faticose ed ebbe anche la possibilità di contrabbandare materiale in cambio di cibo, grazie anche alla collaborazione di Alberto Dalla Volta a cui era molto legato. Un altro aspetto che probabilmente lo aiutò a sopravvivere, fu il fatto che nel Gennaio del 1945 si ammalò di scarlattina e venne ricoverato al Ka-be (Krankenbau in tedesco, infermeria del campo in italiano), scampando quindi alla marcia di evacuazione di Auschwitz.
Il suo viaggio di rientro in Italia fu estremamente travagliato: ritornò a casa nell’Ottobre del 1945, 9 mesi dopo la sua liberazione, passando per gli Stati di Polonia, Bielorussia, Ucraina, Romania, Ungheria, Germania ed Austria.
Tornato a Torino riallacciò i legami famigliari persi quando venne arrestato, in questi anni conobbe Lucia Morpurgo che diventerà sua moglie, e di amicizia con i conoscenti sopravvissuti all’Olocausto.
Avendo ancora negli occhi e nel cuore gli orrori vissuti, sentì il bisogno irrefrenabile di mettere su carta la sua esperienza di quei tremendi anni e diede vita al romanzo “Se questo è un uomo”, terminato nel 1947, in cui racconta quei tragici avvenimenti con dovizia di particolari ma anche con estrema dignità. Molti editori rifiutarono il libro, tra cui Einaudi, e venne quindi pubblicato da un piccolo editore, De Silva. Tuttavia, nonostante la buona accoglienza della critica, ricevette anche una recensione da Italo Calvino su L’Unità, non riuscì a vendere che 1500 copie, la maggior parte delle quali nel capoluogo piemontese. Il suo fu uno dei primi memoriali di deportati ebrei nei campi di sterminio nazisti, insieme a lui ricordiamo i racconti pubblicati subito nel primo dopoguerra di: Lazzaro Levi. Giuliana Fiorentino Tedeschi, Alba Valech Capozzi, Frida Misul, Luciana Nissim Momigliano, Liana Millu, Luigi Ferri che ha deposto nell’Aprile 1945 di fronte ad uno dei primi tribunali d’inchiesta sui crimini nazisti, Sofia Schafranov e Bruno Piazza.
Forse per l’insuccesso del suo libro, abbandonò per un po’ di tempo il mondo della letteratura per dedicarsi all’impiego di chimico e, dopo un breve periodo da lavoratore autonomo, trovò impiego presso la Siva, di cui poi divenne il direttore fino al momento del pensionamento.
Nel 1956, grazie al successo di una mostra sulla deportazione tenutasi a Torino, riacquistò fiducia nelle sue capacità di scrittore: partecipò a molti incontri pubblici e ripropose il suo romanzo ad Einaudi che questa volta decise di pubblicarlo, riscontrando un successo immediato. Molto significativa fu la traduzione del libro in tedesco perché Levi voleva che il popolo germanico si rendesse conto di cosa è stato fatto nel suo nome e che ne accettasse almeno in parte la responsabilità per essere rimasti inermi di fronte a quelle atrocità. Grazie a questo successo, nel 1962, decise di intraprendere la scrittura di un libro sul suo tormentato viaggio di ritorno, che intitolò “La tregua” e che vinse la prima edizione del Premio Campiello l’anno successivo.
Nel 1982 tornò a trattare il tema del conflitto con “Se non ora, quando?” in cui racconta le avventure di alcuni partigiani di nazionalità diversa che tendono imboscate ai tedeschi sul fronte orientale, giungendo fino a Milano attraversando i territori del Reich battuto. Quattro anni dopo, invece torna a trattare il tema dell’Olocausto con il saggio “I sommersi e i salvati”, dove cerca di analizzare la sua esperienza chiedendosi quali siano stati i fattori che hanno permesso ad alcuni di sopravvivere in quell’inferno ed altri no e perché le persone si siano comportate in quel modo ad Auschwitz, cercando di addentrarsi nella “zona grigia” rappresentata da quegli ebrei che si prestarono a lavorare per i nazisti.
L’11 Aprile 1987, purtroppo, venne trovato morto alla base delle scale di casa in corso Re Umberto 75, all’età di 67 anni. A distanza di anni rimangono ancora molti dubbi riguardo se si sia trattato di suicidio o una morte accidentale, causata dalle vertigini di cui soffriva. La prima teoria è un’ipotesi espressa fin da subito perché negli ultimi anni di vita si era fatto carico della madre e della suocera malate, inoltre sembra che l’incubo di Auschwitz non l’avesse mai abbandonato (molti ex internati non riuscirono a superare il trauma dell’essere sopravvissuti ad amici o famigliari cercando nella morte una via di fuga a quel straziante senso di colpa), e che il continuo rivangare nella memoria, che inizialmente poteva essere un aiuto psicologico ad esternare il vissuto, alla fine lo abbia reso una vittima tardiva dell’Olocausto. Questa, nonostante la moglie avesse confermato al giornale Stampa che soffriva da tempo di depressione, per la quale prendeva dei medicinali sospesi a marzo a seguito di un intervento alla prostata, per alcuni rimane un’ipotesi labile e contestata perché Primo Levi non aveva dimostrato tendenze autodistruttive, anzi aveva dei programmi per il futuro. Ciò ad ogni modo non esclude del tutto il suicidio, a parere di chi scrive, perché anche recentemente abbiamo visto come una persona apparentemente con dei validi motivi per vivere e con grandi progetti per l’avvenire possa decidere di togliersi la vita da un giorno all’altro. A confermare questa tesi ci sono anche le sue parole rivolte al suo editore l'8 Aprile a cui diceva di non riuscire più a scrivere; anche al suo biografo autorizzato aveva chiesto di smettere perchè era troppo doloroso ricordare, ma qualche giorno dopo fece dietrofront chiedendogli di continuare, dimostrando quindi anche una certa indecisione nelle scelte, e forse sbalzi d'umore, propri della depressione.
Le sue spoglie sono conservate nel campo israelitico del Cimitero Monumentale di Torino.
Fonti:
www.wikipedia.it
www.biografieonline.it
www.ilpost.it