Furono i Babilonesi (Babilonia significa “terra della lana”) a scoprire un po’ alla volta l’arte della lavorazione: a quei tempi ci si limitava ad attorcigliare con le dita i batuffoli, stirandoli in modo da ottenere fili che poi venivano intrecciati fino a formare tessuti grezzi, ma molto caldi ed adattabili al corpo.
Nel corso del tempo, le tecniche subirono un’evoluzione. E un affinamento, la tosatura veniva fatta due volte all’anno con le tradizionali cesoie sostituite successivamente dalle forbici da sarto e dalla moderna tosatrice elettrica.
La testimonianza viene data da un’anziana signora di Cecina di Fivizzano; Forfori Carlotta classe 1936 ancora oggi possiede un piccolo gregge; la sua esperienza e i modi di vivere sono legati al periodo della guerra; un periodo caratterizzato dalla paura e dalla povertà dove non c’èra praticamente niente; grazie ai suoi ricordi che oggi riscopriamo assieme la lavorazione della lana. Mi raccontava che le pecore venivano accompagnate al “vascone” ovvero la grande vasca del paese. Ancora oggi nei piccoli paesini lunigianesi sono presenti queste grandi vasche; erano il punto di ritrovo per le donne che vi andavano lì per lavare la biancheria. Carlotta racconta che la lavorazione della lana inizia con la lavatura delle pecore anche con i saponi, la cosa bella di questa procedura, raccontava con un grande sorriso è il fatto che gli animali uscivano bianchi,di un bianco candido. Da lì venivano “trosate” e la loro lana era adagiata in contenitori, il manto trosato subiva la “cardata” cioè la pettinatura, questo procedimento allo scopo di sciogliere i nodi, districare e allineare le fibre.
A questo processo seguiva la filatura che consisteva in due operazioni eseguite contemporaneamente, la torsione e la stiratura del filo: ciò veniva fatto applicando al filo un movimento che avvolgeva le fibre a spirale e le poneva allo stesso tempo in tensione. Per eseguire tale operazione si avevano a disposizione due sistemi diversi.
Fotografia signora anziana mentre lavora la lana
Filatura con Fuso e Rocca (füs e ròcca) Il fuso è la forma più antica di attrezzo per filare Carlotta né possedeva uno che purtroppo con il possare degli anni è andato distrutto. Il fuso era di legno tornito e veniva fatto girare su stesso per torcere e distendere i fili. La Ròcca è la “conocchia”, che serviva a reggere il “pennecchio”, cioè il batuffolo di fibre da filare: si trattava di un bastone che era tenuto in genere tra il braccio ed il fianco della filatrice, talora agganciandolo al corpetto con un fermaglio. L’altra tecnica era la filatura con Filatoio ad alette (filaréll) Esistevano due tipi di Filaréll, rispettivamente a sviluppo orizzontale e verticale. In ogni caso lo strumento era formato da una ruota di legno il cui movimento, veniva azionato con un pedale, era collegato ad un dispositivo di forma a U, che ruotando intorno ad un rocchetto torceva ed allo stesso tempo avvolgeva il filato per effetto della diversa velocità di rotazione di rocchetto e alette.
Fotografie degli strumenti per la lavorazione della lana
Quando si disponeva di diversi rocchetti caricati con la giusta quantità di filo di lana era possibile anche formare un filo a più capi: occorreva in tal caso montare sul filatoio un rocchetto vuoto, fissarvi i 2, 3 o 4 capi disponibili e poi si faceva ripartire il filatoio nella direzione opposta alla precedente. Il filo di lana era avvolto in matasse utilizzando il “vìndu”, un aspo (antico strumento di lavorazione) a perno orizzontale azionato con una manovella e si ottenevano le matasse di filo di lana,successivamente si facevano i gomitoli, a quei tempi le donne lavoravano molto a maglia, con i ferri si potevano realizzare i calzettoni, le maglie, le sciarpe, i berretti; molte donne avevano i telai e con essi potevano realizzare cose grandi indumenti come le coperte.