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La cucina in tempo di guerra (approfondimento)


Parlare di cucina in tempo di guerra non è semplice perché molti furono i problemi che gli italiani incontrarono nel procurarsi qualcosa da mangiare, soprattutto dopo l’introduzione della tessera annonaria e dello sviluppo del mercato nero, che nacque come aiuto alle popolazioni ma che in taluni casi sviò verso la strada dell’arricchimento personale.

Le prime restrizioni si ebbero come conseguenza dell’attacco italiano all’Etiopia del 3 ottobre 1935, quando la Società delle Nazioni (attuale ONU) applicò alla nostra penisola quelle che vennero definite dal regime le “inique sanzioni” e che prevedevano un blocco alimentare dei prodotti dall’estero. La decisione di punire l’Italia per l’attacco al Paese africano in fin dei conti fu una farsa perché, delle 52 Nazioni fra i 56 totali che non avrebbero dovuto rifornire il nostro Stato, solo alcuni si schierarono palesemente contro la penisola, mentre Ungheria, Austria, Albania e Germania proseguirono i mutui rapporti economici con l’Italia. Altre Nazioni che non facevano parte della Società delle Nazioni, come USA, Giappone e Brasile, avevano piena libertà di azione e così, ad esempio, l’Inghilterra che era rifornita dagli Stati Uniti, riforniva la Germania che a sua volta commerciava con il nostro paese. Mussolini, per aggirarle, mise in atto un programma di autarchia (dal greco autarkeia = bastare a se stesso) che prevedeva il rendersi indipendenti dalle importazioni. Queste sanzioni furono tolte un anno dopo, ma questo lasso di tempo bastò a far sparire dalle tavole degli italiani alcuni prodotti, il blocco delle importazioni infatti continuò, che furono sostituiti con surrogati (ad esempio il caffè fu sostituito da quello d’orzo, di cicoria o da semi che venivano tostati macinati e poi fatti bollire, il thè nero da quello di karkadè prodotto nelle colonie) e portò il regime ad attuare una politica di aumento della produzione interna, così da valorizzazione il prodotto italiano e scoraggiare l’utilizzo di quelli esteri. Il programma di indipendenza del Fascismo non si spinse solamente ai rimedi casalinghi, come sostituire petrolio e gasolio con combustibili fatti in casa con giornali macerati ed essiccati, ma diede anche l’impulso alla ricerca scientifica italiana con lo scopo di trovare alternative a quello che non si trovava più. Questa è l’epoca del raion, di Ferragamo che usò il sughero per le suole delle scarpe da donna dando vita alle zeppe che vanno ancora di moda, è il periodo del tessuto Lanital, una specie di lana artificiale, fatto con la caseina del latte in esubero

L’autarchia, ad ogni modo, inizialmente non fu un problema per gli italiani perché a quell’epoca non erano un popolo dedito al consumismo, e soprattutto il regime riuscì a mascherare molto bene la reale situazione: attuò un programma di slogan contro il consumo eccessivo di cibo che inneggiavano al fatto che le persone obese erano infelici e che chi mangiava troppo derubava la Patria (“Gli obesi sono infelici!” o “Chi mangia troppo deruba la Patria!”). Il popolo fu invitato a cambiare i propri consumi alimentari: la cucina autarchica divenne sempre più vegetariana e venne incoraggiato un maggiore consumo di pesce al posto della carne (destinata principalmente al consumo dei soldati sul fronte) e così, anche in paesi del nord dove non si era mai vista una pescheria fino al 1936, si iniziò a mangiare sempre più pesce. Il Fascismo puntò molto su questo cibo perché considerato autarchico, soprattutto per ragioni geografiche dato che proveniva dai nostri mari, e furono quindi inaugurati moltissimi mercati ittici in svariate città, i pescivendoli invasero la pianura padana ed i pescatori liguri, romagnoli e veneti iniziarono a fare grandi affari.

Quando l’Italia entrò in guerra nel 1940 la situazione alimentare, quindi, alla popolazione non sembrava così tragica: mancavano alcuni prodotti ed altri scarseggiavano ma si riusciva a sopravvivere. La situazione iniziò a farsi critica l’anno successivo quando, per rispondere alle necessità dell’esercito, entrò in vigore la tessera annonaria che prevedeva razionamenti delle risorse e dei consumi dei cittadini. Inizialmente ci furono restrizioni per l’acquisto della carne ed un clima di paura si diffuse quando fu tesserato anche il pane, prodotto principe della nostra alimentazione in quanto veniva utilizzato in tantissime preparazioni, era economico e lo mangiavano sia grandi che piccini. Questo malumore, dovuto soprattutto alle razioni ritenute insufficienti, si diffuse tra la popolazione trovando sfogo nei mercati e nelle piazze attraverso proteste ed invettive delle donne, su cui gravava il peso di portare in tavola qualcosa da mangiare. Il regime, per non perdere di credibilità, si trovò quindi costretto a concedere dei supplementi nelle razioni di pane alle donne incinte, ai bambini ed ai lavoratori in base al tipo di lavoro svolto (500 g al giorno per chi svolgeva lavori pesantissimi come i minatori fino ai 300 g per gli operai generici).


Cucina contadina

LA TESSERA ANNONARIA:

La tessera entrò in vigore con la legge n° 577 del 6 maggio 1940 “Norme per il razionamento dei consumi” che introdusse la facoltà per il Ministero delle corporazioni di disporre, all’art. 1, in accordo con il Ministero per l’agricoltura e le foreste e quello dell’Interno, il “razionamento dei generi di consumo, man mano che se ne presenti la necessità, e di emanare le relative norme di esecuzione”. L’art. 2 invece affermava che “per l’attuazione del razionamento di cui all’art. 1, è fatto uso di una carta annonaria da rilasciarsi da ciascun Comune ai consumatori residenti nello stesso”. Qualche giorno dopo uscì il decreto che regolamentò l’uso della tessera che era costituita da una parte fissa e da una staccabile, formata da tanti tagliandini, con validità di uno o più mesi, che il negoziante staccava per ogni acquisto effettuato. Ad ogni consumatore veniva rilasciata una tessera per ogni genere, non solo alimentare, che, prima di poter essere comprato, doveva essere prenotato presso il negoziante. In altre parole: ogni scheda era nominativa, aveva più tagliandi sui quali era stampato il nome del genere alimentare a cui si riferivano, la quantità ed il giorno in cui era possibile acquistarlo. Non era duplicabile, perderla quindi costituiva un problema molto grave, ma il possederla non era comunque garanzia di acquisto del prodotto perché non si aveva mai la certezza di quanta merce sarebbe arrivata in negozio. Il rischio di rimanere senza era sempre dietro l’angolo, o perché non ce n’era abbastanza o perché i notabili mandavano le loro servette a fare la spesa e, tramite raccomandazioni, riuscivano ad accaparrarsi quel poco che c’era.

Le restrizioni si fecero di mese in mese sempre più pesanti: venne disciplinata la vendita dei grassi (olio, burro), poi quella dei carboidrati (pasta, farina, riso, mais), del latte, del formaggio, della benzina, delle patate, dello zucchero, dei legumi, delle uova, degli abiti, dei tessuti e del filo da cucire. La situazione divenne insostenibile già al secondo anno di guerra quando le razioni erano al limite: 80 g di carne bovina e 60 di salumi alla settimana, 1 uovo ogni 15 giorni, 2 kg di pasta e 1,8 di riso al mese, 800 g di patate ogni 2 settimane. Le razioni variavano da nord a sud per venire incontro alle abitudini (al sud si avevano 2 kg in più di pasta, ad esempio), ma le quantità non erano sufficienti per mantenere la popolazione in salute. Per placare i morsi della fame, si racconta che il pane venisse fatto mescolando la poca farina disponibile alla segatura, rendendolo così pesante e per nulla nutriente.

Chi poteva cercava di aggirare il problema attraverso le rivendite clandestine di carte annonarie grazie alla compiacenza di funzionari comunali, provinciali o della Prefettura corrotti che, per i 10 milioni di italiani che nel 1942 non riuscivano ad assumere le calorie necessarie, era fonte di un crescente malessere.


Non ti potrò scordare

o bella pagnottella,

tu sei la viva stella

che brillerà per me.

Ricordi le patate

piantate al Valentino?

Ci manca pure il vino,

di fame ci fan morir!

La gioventù

non sta più su.

Si sente un certo languor,

in Italia si vive d’amor!

(Sulle note di Piemontesina bella)


GUERRA AGLI SPRECHI E ORTI DI GUERRA:

Contemporaneamente all’autarchia ed al razionamento, Mussolini attuò una politica di guerra agli sprechi facendo pubblicare decaloghi, manuali e articoli indirizzati alle donne in cui si davano consigli sul come utilizzare qualsiasi cosa, come i giornali al posto della lana all’interno di una pettorina di flanella o all’interno delle scarpe come solette tra la suola e la parte di flanella.

In campagna la situazione, paradossalmente rispetto ad oggi, si stava meglio che in città perché si riuscivano a trovare i prodotti che era da altre parti scarseggiavano, anche se avere appezzamenti di terra, come i funghi, le erbe spontanee e se si avevano delle conoscenze le si poteva sfruttare per trovare tantissimi altri prodotti spontanei. Inoltre, dai contadini si potevano trovare le uova, il latte, il formaggio che si poteva comprare anche con scambi in natura (carne per uova ad esempio). Ecco che il contadino, povero da sempre, si riprese una piccola rivincita grazie al valore che la sua merce acquistò in quel momento. In campagna si rifugiarono anche gli sfollati per sfuggire, dopo l’Armistizio, dai nazifascisti e dai bombardamenti, ma anche dalla fame.

In città si cercò di organizzarsi come meglio si potè ed una soluzione che le amministrazioni cittadine, su indicazione del Governo, incentivarono fu quella di portare la campagna tra le mura dei palazzi. Fu così che, in orti privati e giardini pubblici, nacquero gli orti di guerra, che oggi chiameremmo orti urbani e diventati molto famosi dopo che Michelle Obama ne ha creato uno nel giardino della Casa Bianca quando era First Lady. Inizialmente vennero gestiti da enti ed associazioni come il Dopolavoro, presto però la famiglie si organizzarono autonomamente piantando ortaggi in qualunque spazio libero da costruzioni. Curare l’orto divenne un’azione patriottica, tanto che a scuola vennero insegnate ai bambini delle canzoncine che risvegliassero in loro il senso del dovere e lo spirito di servizio verso la patria in guerra. Ad esempio:


Caro papà, ti scrivo e la mia mano

quasi mi trema, lo comprendi tu?

Sono tanti giorni che mi sei lontano

e dove vivi non lo dici più.

[...]

Anch’io combatto, anch’io fò la mia guerra,

con fede, con onore e disciplina.

Desidero germogli la mia terra

e curo l’orticello ogni mattina.

L’orticello di guerra! E prego iddio

che vegli su di te, babbuccio mio!


Oltre alle verdure, mancando anche uova e carne, furono incentivati anche gli allevamenti cittadini di conigli, galline nei cortili delle case ma anche sui balconi se mancava il posto.

Quando la fame era implacabile, ci si attrezzava come meglio si poteva.


IL MERCATO NERO:

Nonostante le misure intraprese dal Governo, man mano che passavano i mesi, era chiaro che le razioni non erano più in grado di garantire nemmeno la sopravvivenza perché non riuscivano a coprire il fabbisogno calorico quotidiano, e non tutti potevano permettersi di seguire un orto o qualche piccolo animale per ovviare alle mancanze. Se a ciò aggiungiamo il fatto che, come accennato, le consegne di cibo non erano regolari ed i prodotti erano sempre più di scarsa qualità, causando anche gravi malattie, la popolazione dimagriva a vista d’occhio. È in questa situazione che si sviluppò il mercato nero, che si organizzò parallelamente a quello regolare nell’inverno 1941-1942 e che durò per tutto il periodo della guerra.

Inizialmente era nato come un semplice rapporto di bonaria complicità instaurato tra negoziante/fornitore e cliente perché, solitamente, il primo conosceva le persone che abitualmente si servivano da lui e quindi sapeva quali fossero le loro esigenze. Ecco allora che nascondeva il latte per la signora che aspettava il quarto figlio, o imboscava il pane per la moglie del minatore al quale non bastava la razione prevista dalla tessera. Ovviamente cedeva i prodotti a pagamento ed a prezzo maggiorato, ma le sue intenzioni erano quelle di dare una mano a chi era in difficoltà. Le cose iniziarono a deteriorarsi quando, produttori e commercianti, iniziarono a volersi arricchire attraverso questo mercato secondario, spingendo il regime ad attuare controlli sempre più serrati che spesso portavano a sequestri che impedivano che quel poco di merce disponibile arrivasse a destinazione, mettendo sempre più a rischio chi praticava questo tipo di commercio e quindi i prezzi salivano crescevano.

A questo punto la differenza tra fare la fame e magiare la facevano i soldi. Chi stava peggio erano gli impiegati, coloro che avevano uno stipendio fisso, o chi non aveva mai avuto modo di risparmiare qualcosa e che ora si ritrovavano con un potere di acquisto limitato. Ci fu chi arrivò a scambiare i propri gioielli pur di poter avere un po’ di soldi per poter sfamare la famiglia.


LE DONNE, LA CUCINA, LE RICETTE:

È in questa situazione che le donne si trovano a doversi districare per poter portare in tavola qualcosa da mangiare per la propria famiglia. Erano costrette a veri e propri miracoli, inventando ogni giorno un modo per sbarcare il lunario con risorse finanziarie ed alimentari sempre più scarse passando ore, soprattutto le donne di città, fuori casa di fila in fila pur di trovare qualcosa, e quando non trovavano niente andavano a trovare i contadini in campagna, tornado a casa la sera tardi con magari solamente mezzo kg di farina o un paio di uova.

È per loro che in quegli anni, oltre ai manuali per non sprecare nessun prodotto, uscirono articoli e libri di ricette che erano dei veri e propri inni alla cucina del poco e del senza, proponendo tantissimi surrogati ed alternative come la maionese senza olio, la crema senza uova, i dolci senza zucchero, ecc….Le principali destinatarie di questi articoli erano le moglie degli impiegati di modesto livello che con lo scarso stipendio del marito dovevano barcamenarsi tra prezzi alti e cibo alto, dovendo comunque mantenere un certo senso di decoro della tavola e della gestione della famiglia in generale cercando di nascondere il disagio per tenere alto il morale almeno a tavola. Le donne delle famiglie meno abbienti o contadine non avevano bisogno di leggere queste riviste: primo perché molte di loro non sapevano leggere e non avevano i soldi per permettersi un libro di ricette, ma soprattutto perché erano già abituate a fare senza di alcuni prodotti e quindi non si formalizzavano sulla presentazione del piatto.

Tra le più importanti uscite dell’epoca ricordiamo:

  • Cucina in tempo di guerra. 250 ricette e vari consigli pratici per prepare una buona mensa di Renata Petrali Cicognara (1941);

  • La cucina del tempo di guerra di Lunella De seta (1942);

  • La cucina italiana della Resistenza di Emilia Zamara;

  • Desinareti per…questi tempi di Petronilla, alias Amalia Moretti Foggia (1945), la più famosa e prolifica autrice di ricettari di cucina dell’epoca.

In questi ricettari possiamo trovare tantissimi consigli e ricette per riuscire a portare in tavola qualcosa che fosse, almeno apparentemente, appetitoso. Ecco allora che troviamo ricette su come fare la crema senza usare le uova, i dolci senza utilizzare lo zucchero, le torte senza usare la farina, il budino senza il latte, l’insalata senza olio e le polpette senza la carne.

Le donne era invitate ad utilizzare la fantasia e la parsimonia, ma la cruda realtà era che ormai c’era poco da poter utilizzare e, nonostante gli interventi (anche propagandistici) del Regime e i numerosi ricettari, la situazione era insostenibile.



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